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Troppo presto…troppo tardi (leggende logopediche metropolitane)

Una domanda che ci viene frequentemente posta durante i nostri corsi è a che età avviano la logopedia i bambini che seguiamo. È così evidente che il lavoro sulla comunicazione e sul linguaggio dovrebbe iniziare il più precocemente possibile; questo ovviamente non significa dover mettere il bambino a tavolino, ma adattarsi e lavorare sulle abilità comunicative e linguistiche in modo motivante, coinvolgente e adeguato all’età.

Quando questa domanda ci viene posta, purtroppo la risposta non è quella che vorremmo dare. La realtà è che i bambini arrivano da noi mediamente dopo i 5 anni, soprattutto quando siamo nell’ambito dei Disturbi dello Spettro Autistico,

5 anni sono proprio tanti! Eppure per tutti questi anni i bambini sono stati esposti alla comunicazione e al linguaggio, magari senza avere la possibilità di capire e di dare significato a questi preziosi scambi. E quante occasioni perse per imparare ad essere dei comunicatori più efficaci… quanta frustrazione!

4950117113_21c80ba6d8_bA questo proposito tutti gli specialisti coinvolti dovrebbero condurre una seria riflessione: i medici (i pediatri, per i quali è sempre troppo  presto, i foniatri, i neurospichiatri…) che dopo aver diagnosticato un disturbo del linguaggio o della comunicazione, inviano i bambini alla psicomotricità; gli psicomotricisti che non chiedono il supporto di specialisti del linguaggio e della comunicazione; e infine noi logopedisti, che nel corso del tempo abbiamo contribuito significativamente a creare “La leggenda dei bambini non ancora pronti per la logopedia”.

Proprio di questa leggenda ci parla la Dott.ssa Silvia Magnani, in questo interessante articolo.

Vi invitiamo a leggerlo. Invitiamo tutti i colleghi ad una seria riflessione.

Ci auguriamo, nel giro di pochi anni, di poter cambiare la nostra risposta.

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Parlare con le immagini

di Angelo Ruta da http://www.angeloruta.com

Le parole, dille… con parole tue! Che siano scritte, dette, segnate, disegnate, indicate, consegnate, mimate, purché siano comunicate!

Offriamo spesso il supporto visivo come possibilità di comunicare, in particolare nei disturbi dello spettro autistico.

L’immagine non inibisce la comparsa del linguaggio verbale, ma la sostiene, la incoraggia, spesso è l’unico mezzo a renderla possibile. Lo abbiamo toccato con mano raccogliendo gli atti comunicativi spontanei con la GRASC: bambini scarsamente verbali, pur avendo a disposizione le foto di tutto il materiale, utilizzano in percentuali molto alte il linguaggio verbale, più immediato, economico, che probabilmente costituisce la forma maggiormente stimolata dal contesto, familiare e non.

Ancor più sorprendente è il confronto tra due campioni di comunicazione dello stesso bambino, raccolti a distanza di un anno: le percentuali della forma verbale crescono avvicinandosi anche all’80% in più di un caso.

Parliamo di bambini che hanno avuto accesso al canale verbale molto tardi, per i quali purtroppo, nonostante questa preferenza per il verbale, rimane il problema dell’intelligibilità, aggravato dalle difficoltà che riguardano la prosodia.

Alcuni programmi di Comunicazione Aumentativa Alternativa, una volta che il bambino ha imparato a esprimere una richiesta indicando o consegnando una carta (ad esempio acqua), prevedono la combinazione di due carte, spesso introducendo un verbo (ad esempio voglio acqua). Questa espansione non migliora di molto la funzione e l’efficacia dell’atto comunicativo; tuttavia, costituendo il linguaggio visivo un grosso supporto per quello verbale, se il bambino scarsamente intelligibile aggiunge il voglio alla sua richiesta verbale, già poco chiara, questo aumento  potrebbe costituire un ostacolo all’efficacia comunicativa del suo atto, proprio perché potrebbe peggiorarne l’intelligibilità.

Questa riflessione, nata da una recente suggestione, ci suggerisce un approfondimento su questo tema: chi lavora con la comunicazione alternativa aumentativa nell’autismo, solitamente l’educatore, lo psicomotricista o lo psicologo, nel momento in cui emerge il linguaggio verbale e viene preferito ad altre forme espressive, manca di una competenza specifica che la figura del logopedista può e dovrebbe  portare all’équipe che opera scelte importanti per il bambino.

Ci piacerebbe sapere cosa ne pensate!


Prima di parlare… “significare”

Parliamo ancora di autismo. Continuano le nostre appassionate riflessioni sull’apprendimento del linguaggio nell’ambito dei disturbi pervasivi dello sviluppo. Reduci dalla lettura estiva del libro della De Clerq, L’autismo da dentro, recentemente pubblicato da Erickson, abbiamo puntato la nostra attenzione su lessico e semantica.

Sembrerebbe che la difficoltà di attribuire significati costituisca uno dei nodi centrali dell’autismo. Non ci possiamo limitare ad insegnare parole, che siano esse immagini, gesti o linguaggio verbale: dobbiamo accertarci in primo luogo che ci sia un concetto a cui dare un nome. Insegniamo a Ivan il verbo aprire con l’immagine di un bambino che apre la scatola di biscotti: ci aspettiamo che lui sappia recuperare la stessa etichetta verbale di fronte alla foto di una bambina che apre la cerniera di un astuccio, perché “ci abbiamo già lavorato”… sbagliato! Non è detto che il concetto di creare un varco, di rimuovere ogni impedimento al passaggio (come per un cancello), ma anche di allargare (nel caso delle braccia), di azionare (per un rubinetto), di prestare attenzione (nel senso figurato di aprire le orecchie), venga riconosciuto come un significato che è possibile ricondurre alla parola aprire. Non è detto: non tutti ci riescono e non sempre.

Cosa facciamo allora con Ivan? Per prima cosa non ci fermiamo a pochi esempi e non ci limitiamo neanche ad immagini statiche: usiamo proprio le azioni dei loro amati personaggi di cartoni animati in movimento, che aprono macchine, porte, finestre, libri, braccia e rubinetti.

Ma soprattutto cerchiamo di condurre i genitori ad enfatizzare l’azione tutte le volte che Ivan, mamma e papà o il fratellino Piero aprono, rompono, chiudono, chiamano, … Quante occasioni vengono offerte dalla quotidianità che la stanza di terapia non consente di ricreare!

Questo lavoro di generalizzazione condotto a più mani, da logopedista, altri operatori, scuola e famiglia, vale sicuramente per le azioni, più astratte e dinamiche, ma è sempre da tener presente ogni volta che insegniamo parole nuove.