Logopedia e autismo: il ruolo del logopedista

di Maria Federica Montuschi

Nella seconda metà degli anni ’90, nella realtà lombarda così come nel resto d’Italia, la logopedia era esclusa dalla presa in carico dei bambini con Disturbo dello spettro autistico: le valutazioni e i trattamenti dopo questa diagnosi restavano casi isolati nelle mani di qualche coraggioso pioniere. Storicamente, infatti, le teorie psicogenetiche sull’eziologia dell’autismo hanno tenuto i logopedisti lontano da questi disturbi, facendone una categoria impreparata: le difficoltà di comunicazione e di linguaggio del bambino erano infatti attribuite ad una chiusura nei confronti della relazione e non ad una vera e propria impossibilità.

Negli anni il logopedista è diventato più preparato e consapevole del suo ruolo anche in quest’ambito, forte del suo profilo professionale (1994) che, oltre ai disturbi del linguaggio e della voce, include anche i disturbi della comunicazione. Inoltre, il DSM-5 (2013) ha esplicitato, in un’ottica di comorbilità, la possibilità della presenza di una compromissione linguistica a livello ricettivo ed espressivo.

Oggi le équipe multidisciplinari di centri specializzati e le neuropsichiatrie infantili, coinvolgono sempre di più la nostra figura professionale nella presa in carico del bambino, proponendo interventi diretti, non ancora con quella “precocità” che vorremmo: abbiamo appaltato per anni l’intervento sulla comunicazione del bambino piccolo che ancora non parla ai nostri colleghi psicomotricisti e sono ancora molte le situazioni in cui il bambino è definito “non ancora pronto” per la logopedia, sia dai responsabili del progetto di intervento, sia dagli stessi logopedisti, ancora un po’ in imbarazzo di fronte ad un bambino “poco collaborante”.

La presenza del logopedista è fondamentale fin dall’iter diagnostico: riuscire ad ipotizzare il livello di comprensione verbale del bambino molto piccolo, ad esempio, oltre ad essere nostro compito, è anche un prezioso aiuto sia per chi fa la diagnosi, che può avere ulteriori dati prognostici, sia per la famiglia che può tornare a casa, oltre che con una diagnosi disarmante, anche con qualche strategia concreta su come supportare la comprensione del loro bimbo nella quotidianità e promuovere la comunicazione, anche verbale.

Non è detto infatti che il logopedista in queste prime fasi intervenga direttamente sul bambino, preferendo in alcuni casi un intervento di tipo indiretto. Allo stesso modo non è detto che il logopedista si debba occupare solo di linguaggio verbale e non di tutte le altre forme di comunicazione possibili per creare un ponte tra noi e la persona con autismo.

Alcuni approcci di tipo comportamentale trattano tutte le aree di sviluppo del bambino, compreso il linguaggio, chiamando in causa la logopedia solo per difficoltà a livello articolatorio che non sanno come affrontare, e pretendendo, in alcuni casi, che il logopedista si limiti a trattare solo quel pezzo, senza che egli si occupi di linguaggio e di comunicazione a tutto tondo, come invece è nel suo DNA. Gli ambiti del linguaggio e della comunicazione infatti non sono scindibili, ma proseguono influenzandosi a vicenda nel loro sviluppo ed è praticamente impossibile delinearne i confini, proprio come è impossibile parlare di linguaggio come se fosse qualcosa di indipendente dalla comunicazione: il bambino, infatti, impara a parlare all’interno della relazione, comunicando. Così non avviene però molte volte nei bambini con Disturbo dello spettro autistico: il bambino potrebbe imparare a denominare per il piacere di sperimentare associazioni stabili tra oggetto, più spesso immagini, lettere e numeri, e parole, senza che questo piacere venga condiviso. Il ruolo del logopedista sarà allora sempre più quello di insegnare al bambino a parlare in uno scambio comunicativo che nasca dai suoi entusiasmi.

Il logopedista che si occupa di autismo deve sempre considerare il linguaggio verbale un dono prezioso da dosare: troppe volte infatti esso è fonte di confusione per il bambino, quando è a lui rivolto, perché arriva troppo di corsa, troppo instabile e transitorio, in un continuum senza pause; altre volte invece siamo noi che ci lasciamo confondere dal linguaggio fluente di quei bambini che parlano molto, ma non comprendono, e ci sintonizziamo così su un livello linguistico che non è quello reale. Il linguaggio dello spettro autistico infatti è molte volte costituito da frasi fatte, in uno stile gestalt che non corrisponde ad una vera a propria capacità di generare nuove frasi in modo creativo, frasi mai sentite prima, e quindi di comprenderle.

Il logopedista deve infine saper ascoltare, i genitori prima di tutto, perché raccontano di un bambino che noi non conosciamo, e il bambino, perché ogni gesto, ogni comportamento e ogni ecolalia ci parlano con un significato che solo un attento ascolto può comprendere.

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